"Con gli scavi d'emergenza non preserviamo alcunché, né immagazziniamo conoscenze per le generazioni future. Accumuliamo solo una congerie bruta, sparsa e caotica di indizi non tradotti in cultura, che col passare del tempo sarà impossibile redimere, per cui non rimarrà che il danneggiamento alla risorsa archeologica". Parola di Andrea Carandini, dal 1980 ordinario di archeologia classica a La Sapienza di Roma.
Il professor Carandini (71), ha appena pubblicato per Einaudi Archeologia Classica - vedere il tempo antico con gli occhi del 2000, un saggio in cui accusa i suoi colleghi di scavare troppo, e spesso senza valide motivazioni.
Terreni recintati, vestigia appena percettibili protette da tettoie di lamiera arrugginita. "L' Italia, da zero a quindici metri di profondità, presenta sempre vestigia romane o alto-medioevali. Cosa facciamo? Non viviamo più per le nostre civiltà sepolte?" dice Carandini.
Io sono completamente d'accordo. Anche perché i funzionari bloccano le riconversioni del territorio, cominciano a scavare e spesso si fermano poco dopo, lamentando carenza di fondi e altre emergenze. Ma tutto rimane bloccato per anni, a volte per sempre. Spazi urbani di grande pregio, recintati e inaccessibili, il cui valore culturale resta misterioso, non potranno mai più essere riqualificati.
Le città italiane si sono sempre sviluppate e ricostruite sopra le preesistenze. Non ha caso abbiamo degli strati archeologici. Dopo due millenni oggi il sistema è cambiato: noi scaviamo, inevitabilmente troviamo qualcosa, blocchiamo il cantiere e ripudiamo la trasformazione urbana in favore dell'espansione periferica.
Carandini se la prende con i "Talebani della conservazione" delle soprintendenze archeologiche ma anche con "associazioni benemerite e vecchiotte" che venerano ogni traccia di passato e che "a tutto della vita si oppongono, in sterile e costosa resistenza, e che hanno l' unico scopo di vincolare l' intero Paese, come se separare dalla vita implicasse anche conservare".
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