Come previsto la conferenza sul clima di Copenhagen si è conclusa senza un accordo legalmente vincolante sul nuovo protocollo globale sul clima. Questo lo sapevamo più o meno tutti da mesi. Molto meno prevedibili si sono dimostrate le modalità e le conseguenze di questo epilogo, per una serie di motivi.
Il primo dato è la presenza di tutti o quasi i leader del mondo, evento mai accaduto nelle 14 COP precedenti. Le foto di Copenhagen con i grandi del pianeta seduti attorno a informali tavoli di negoziato sono una novità assoluta. Voci autorevoli riferiscono di un meeting tra i leader di Cina, India e Brasile in cui irrompe Barack Obama, lamentandosi di non essere della partita. Questa attenzione globale zittisce i negazionisti dei cambiamenti climatici e tutti coloro che fino all'ultimo hanno cercato di sminuire il significato del vertice di Copenhagen.
La seconda considerazione riguarda le liturgie delle Nazioni Unite e l'abitudine, per non dire l'arroganza, delle grandi potenze mondiali. Il primo a non capire su quale teatro si stesse recitando è stato proprio Obama, che ha vissuto freneticamente le sue 12 ore a Copenhagen con una sequenza di incontri ristretti, se non rigorosamente bilaterali, fino all'annuncio unilaterale di un accordo con i grandi paesi in via di sviluppo. Accordo che non comprendeva gli altri paesi del G8 e tutte le altre nazioni, comprese le più povere (nel linguaggio ONU sono LDC-Least Developed Countries).
Il terzo elemento è conseguente del secondo, ed è il prezzo che Obama e gli altri hanno pagato per l'arroganza e la superficialità con cui hanno trattato le procedure delle Nazioni Unite, dove USA e Cina contano come Kiribati e San Marino, almeno sulla carta. La conseguenza è stata la drammatica plenaria di sabato mattina (il New York Times pubblica una trascrizione), dove quattro nazioni latinoamericane (Venezuela, Bolivia, Nicaragua e Costarica) oltre a Sudan e Tuvalu, hanno impedito al Copenhagen Accord di essere sottoscritto dalla COP-15, relegandolo a un documento di cui il summit ha "preso atto". Le regole ONU infatti prevedono l'unanimità.
Questo punto merita qualche riga in più, perché i sei dissensi nascono da motivazioni profondamente diverse, che però hanno trovato nelle procedure un nesso comune. I latinoamericani hanno posto un problema politico, certamente strumentale ma motivato dalla oggettiva indifferenza di Obama al protocollo ONU. Non si può negare che l'accordo USA-Cina, India-Brasile-Sud Africa sia stato imposto dall'alto, con la conseguente frustrazione di chi da due anni stava lavorando con pazienza ai tavoli di mediazione.
Tuvalu e Sudan rappresentano invece l'estremizzazione di due posizioni, non condivise dagli altri stati dei rispettivi gruppi. Resta l'imbarazzo per il Sudan, che nel ruolo di portavoce del gruppo G77+Cina (130 nazioni) avrebbe dovuto mantenere atteggiamenti di moderazione, mentre ha addirittura paragonato la proposta di accordo all'olocausto. Inevitabili le prese di distanza di molti paesi del blocco.
Anche la quarta osservazione è conseguenza della seconda e riguarda sempre l'accordo appena citato. L'accordo politicamente avrà conseguenze pesantissime. L'opposizione delle quattro nazioni latinoamericane infatti ha come contrappeso il ruolo del Brasile di Lula, che è tra i fautori del documento. Quindi l'America Latina si è spaccata. Altrettanto vale per il Sud Africa e per il dichiarato appoggio di Etiopia e molti altri paesi africani, che di fronte all'opposizione del Sudan dimostrano una frattura anche in questo continente. Queste due posizioni, sommate a Cina e India e all'appoggio della Corea del Sud, sgretolano anche il fronte dei cosiddetti "paesi in via di sviluppo". Lo stesso vale per il gruppo dei piccoli paesi insulari (OASIS) . Mentre Tuvalu si metteva di traverso Maldive implorava l'appoggio all'accordo.
Il quinto punto è è che il cartello USA-grandi nazioni emergenti mette all'angolo anche Europa, Giappone, Russia, Australia e Canada. In pratica l'occidente resta rappresentato solo dall'America, che si presenta come unico interlocutore e alleato dei grandi paesi emergenti. Gli altri sono costretti a "prendere atto" e a manifestare la propria delusione. In questo scenario è evidente che la grande sconfitta è l'Europa.
Il commento dei grandi analisti politci sarà ovviamente che la conferenza di Copenhagen ha aperto una nuova stagione della politica globale in cui le decisioni possono essere prese senza la partecipazione di interlocutori come Europa e Giappone, impensabile fino a ieri. Tuttavia non è un G2 limitato a USA e Cina, come qualcuno ha scritto, ma un disegno che includendo Brasile, Sud Africa e India spacca tutti i cartelli continentali e rimescola le carte.
Tornando al clima e a quello che ci aspetta, non posso nascondere che resto ottimista, con alcune variabili da verificare nei prossimi mesi. La prima è ovviamente l'avvallo del senato USA al Climate Bill di Obama, che permetterebbe agli USA di assumere impegni molto più robusti entro pochi mesi. Gli esiti del voto sulla riforma sanitaria e i commenti della stampa americana alla delusione di Copenhagen mi fanno pensare che il provvedimento passerà.
L'Europa è smarrita e si sente in un ruolo troppo marginale. Il modo per uscirne, se gli USA approveranno il Climate Bill, sarà la decisione unilaterale di aumentare al 30% le riduzioni al 2020. La Cina è l'unica potenza ad avere la flessibilità per riconvertirsi senza eccessivi traumi alla nuova politica energetica globale e lo farà, seppure con i tempi e i riti dell'oriente (che assomigliano in modo imbarazzante a quelli della vecchia Democrazia Cristiana). Ovvero dicendo di no a oltranza salvo adeguarsi all'ultimo minuto.
Credo che Copenhagen sia la fine dell'inizio, e non il contrario, come qualcuno potrebbe pensare.
Entro gennaio 2010 le nazioni occidentali, quelle dell' "allegato 1" del protocollo di Kyoto, dovranno definire i loro livelli di riduzione delle emissioni (anche l'Italia, sono davvero curioso). Tra sei mesi nuovo round negoziale a Bonn, tra un anno la COP-16 in Messico.
Per allora o si chiude o tutti a casa davvero.
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