Il cosiddetto Copenhagen Accord, il documento finale della COP-15, prevedeva l'obbligo per i paesi sottoscrittori di dichiarare la quota di emissione delle riduzioni di CO2 entro il 31 gennaio 2010. A pochi giorni dalla scadenza la situazione è ancora piuttosto confusa. Talmente confusa che anche fonti dell'UNFCCC, la struttura ONU che si occupa dei cambimenti climatici, definiscono la scadenza del 31 gennaio come "non ultimativa".
Di certo per ora sembra esserci la conferma di una riduzione del 25% da parte del Giappone, mentre la posizione USA resta da chiarire. Il Climate Bill non dovrebbe essere discusso dal senato americano prima di giugno, con tutti i problemi che derivano dalla recente perdita della maggioranza qualificata dei democratici alla camera alta.
Il nuovo gruppo BASIC, nato a Copenhagen e composto da Cina, India, Brasile e Sud Africa, ha anticipato che annuncerà una riduzione delle emissioni il 31 gennaio "anche se l'accordo non è legalmente vincolante". In questo caso la riduzione dovrebbe essere calcolata non in termini assoluti, ma in relazione all'energia utilizzata per ogni punto di PIL. Questo criterio era già stato introdotto dalla Cina e dovrebbe essere seguito anche dall'India, per la quale si parla del 20% in meno. La crescita di questi paesi è talmente veloce che una riduzione in termini assoluti non è realistica, sostengono i quattro di BASIC. Difficile dare loro torto se l'occidente, con una economia in stagnazione, non riesce ad accordarsi su obiettivi ambiziosi.
L'Europa dovrebbe confermare la quota del 20%, seppure definendolo un "obiettivo minimo". La proposta di aumentare la riduzione al 30%, appoggiata da Francia, Spagna, Germania e Gran Bretagna, è stata nettamente osteggiata da Polonia, Italia e altri paesi minori. L'Europa si riserverebbe l'opzione 30% nel caso di "impegni paragonabili" da parte degli altri grandi inquinatori del pianeta. Ma non sembra si vada in questa direzione.
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