giovedì 11 febbraio 2016

Sanremo, riflessioni di un ex inviato

Ho partecipato al Festival di Sanremo come inviato per cinque anni. Erano gli anni '90, l'Italia era un paese rampante e spendaccione, i telefoni mobili erano grandi come scatole di scarpe e nessuno sapeva cosa fosse un MP3.
La mia prima presenza fu nel periodo di Adriano Aragozzini, nel 1990.
Aragozzini - che Gino Paoli chiamava affettuosamente Aragostini per la sua grandeur - aveva ripristinato l'esecuzione dei brani in diretta con l'orchestra, dopo anni di deprimente playback, e introdotto l'accoppiamento dei big con artisti stranieri, che portò a Sanremo personaggi anche di altissimo spessore. Una volta all'Hotel Londra condivisi un ascensore con Ray Charles.
A quei tempi l'industria discografica era ricca e sfavillante. La musica veniva riprodotta e venduta in tre formati: vinile, cassette e CD. La pirateria era praticamente inesistente: i masterizzatori digitali erano macchine professionali enormi e i file audio non si condividevano nei personal computer, ancora troppo pochi e primitivi, con chip 286 o 386, floppy disc e Ram di qualche Kb.
Il Festival di Sanremo è uno spettacolo in tutti i sensi, e chi ci è stato e magari lo ha frequentato dietro le quinte non dimentica l'agitazione di discografici, addetti stampa, stelline rampanti, agenti senza scrupoli e giornalisti narcisi. Un serraglio divertente e variegato, un mondo fatuo e autoreferenziale dove episodi banali o marginali diventano tragedie o successi.
Chi è stato a Sanremo per lavoro tende a continuare a seguirlo. Dopo un po' però ti stanchi. Magari invecchi, magari hai altro da fare. Può darsi che un giorno, come dice Billy Crystal in Harry ti presento Sally, la musica diventa improvvisamente troppo alta. Io quando posso la musica la sento ancora a palla, ma ammetto che negli anni '10 il festival lo ho trascurato spesso. In qualche edizione ero all'estero, in altre semplicemente distratto. Così quest'anno ho voluto rimettermi davanti alla TV. Non il grande LED HD TV di casa, ma il piccolo Sony Trinitron catodico che tengo ancora con snobismo nel mio studio. Come ai vecchi tempi.
Il festival non è cambiato molto. Sono diverse le scenografie, che hanno abbandonato l'opulenza del secolo scorso in favore dell'estetica scarna da Talent Show, tutta luci sfolgoranti e piroette di telecamera. Il Teatro Ariston sembra sempre la Royal Albert Hall, mentre se ci entri dentro è solo un cinema qualunque, con platea e galleria. Miracoli della televisione. Le reazioni del pubblico continuano ad essere eccessive, una sorta di autocelebrazione del rito collettivo. La novità sembra essere lo sdoganamento del turpiloquio. Parolacce, insomma. Nelle gag e nel dopofestival.
Carlo Conti è molto bravo, anche se non capisco perché si ostini a volere un viso arancione, à la Berlusconi. Quando ero direttore musicale di Radio Arancia la proprietà della mia emittente acquisto RDF, la radio di Firenze dove Carlo Conti era DJ. Lui ogni fine settimana faceva seicento km in auto per venire ad Ancona a registrare i programmi. Da allora ho capito quanto fosse motivato. Il suo Sanremo raccoglie una audience incredibile: il 50 per cento di share, vista l'offerta televisiva di oggi, è praticamente il massimo che può raggiungere la TV generalista. Quando io ero a Sanremo i canali TV nazionali erano una diecina, oggi sono centinaia oltre a Sky, Premium e tutto lo streaming.
Sanremo è Sanremo, come cantava la vecchia sigla di Pippo Caruso nell'era Baudo. Per farlo restare tale Conti rispetta la musica, ma non si fida. E fa bene, perché il livello delle canzoni è - come sempre - altalenante. Per mantenere alta l'attenzione inserisce ospiti inappuntabili ma scivola su comparsate scadenti, poi punta diritto al cuore con l'atleta centenario e il talentuoso pianista disabile. Chissà stasera cosa si inventerà. Grazie a lui il festival è tornato un evento, una grande sagra nazionalpopolare. Quello che è sempre stato. Per me va bene così.

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