La foto sopra documenta la plenaria finale della COP25 di Madrid, iniziata alle 10:19 di domenica 15 dicembre, oltre 35 ore dopo l'orario previsto. I negoziati frenetici, proseguiti per tutta la giornata di sabato e la notte tra sabato e domenica, non hanno risolto i disaccordi legati agli ultimi elementi irrisolti per l'attuazione dell'Accordo di Parigi del 2015.
Technicalities, certo, argomenti anche difficili da spiegare in poche righe, ma decisivi per mettere in pratica una strategia globale contro il cambiamento climatico.
La plenaria finale di Madrid si è chiusa alle 13:55 dopo avere approvato un documento piuttosto annacquato dal titolo
Chile-Madrid Time for Action (
a questo link il testo ufficiale diffuso da UNFCCC). In sostanza tutti i quesiti insoluti restano sul tavolo, a cominciare dal famigerato articolo 6 dell'Accordo, quello che riguarda il trasferimento dei
carbon credits tra nazioni e anche soggetti privati. Su questo tema il più inflessibile è stato il Brasile, che fino alla fine ha insistito per quello che viene definito il
double counting, ovvero mettere sul mercato la riduzione di CO2 delle proprie foreste ma allo stesso tempo conteggiarla nei propri obiettivi nazionali di riduzione. A questa ipotesi si sono opposti (giustamente) molti paesi. Ma non sarebbe giusto addossare solo a Bolsonaro il modestissimo esito di questa COP. Cina e India hanno continuato a mantenere posizioni guardinghe, senza alcuna intenzione di seeguire l'Europa, l'unica ad avere presentato un piano ambizioso di zero emissioni al 2050. Persino l'Australia, paese già oggi flagellato dai primi effetti del
climate change, ha tentato di proporre un emendamento per poter includere negli obiettivi nazionali le riduzioni di CO2 del Protocollo di Kyoto.
Piuttosto surreale che la COP più deludente dai tempi di Copenhagen 2009 si sia svolta nell'anno in cui i media di tutto il globo si sono occupati di clima come mai prima e la percezione della gente comune sulla minaccia del
climate change sia aumentata in modo esponenziale. Ma alla COP15 di Copenhagen l'accordo fallì all'ultimo minuto essenzialmente per motivi politici, con l'alleanza bolivariana guidata dal presidente del Venezuela Hugo Chavez che non voleva sottostare ai diktat di Obama e dell'Europa. A Madrid invece i problemi riguardavano essenzialmente i SOLDI. Finanziamenti per la strategia WMI
Loss and Damage, le pieghe dell'articolo 6 sui
Carbon Credits, i cento miliardi di dollari l'anno del
Climate Action Fund.
La strada quindi resta impervia. E pensare che lo slogan della COP25 era
Time for Action, il momento di agire. Gli scienziati hanno calcolato che dal 2015, anno dell'Accordo di Parigi, le emissioni globali sono cresciute del 4 per cento. E che per raggiungere gli obiettivi dell'Accordo dovrebbero calare del 7 per cento l'anno fino al 2030. Le soluzioni passano attraverso i tavoli negoziali dell'UNFCCC e i rituali ONU, in un mondo popolato di acronimi incomprensibili e di frasi contenute tra parentesi quadre (quindi non condivise)
. I negoziati proseguiranno anche in altre sedi, come gli incontri bilaterali tra capi di stati, i G7 e G20 e le altre occasioni ufficiali. Ma sul fronte tecnico è tutto rimandato alla tradizionale seduta di
Climate Talks di inizio estate, due settimane di discussioni a Bonn dove si prova a pianificare la COP di fine anno (e non sempre ci si riesce, come successo stavolta).
Alla fine arrivera la vera resa dei conti, la COP26, che dovrà sancire l'attuazione dell'Accordo di Parigi, che entrerà in vigore nel 2020, cinque anni dopo l'approvazione. Dopo un timido tentativo di organizzazione da parte dell'Italia la COP26 è stata assegnata alla Gran Bretagna, che ha scelto la sede di Glasgow. Le date, comunicate a Madrid, sono anticipate rispetto al solito: 9 - 20 novembre 2020. Auguri a tutti noi.