"First make money, then do good" è il titolo di un articolo di Steve Lohr pubblicato sabato scorso sul New York Times. Nel pezzo si parla della possibilità per le imprese di perseguire il classico obiettivo capitalista del massimo profitto coniugandolo strettamente con il benessere collettivo.
La tesi è descritta in un articolo della Harvard Business Review di Michael E. Porter e Mark R. Kramer dal titolo “Creating Shared Value: How to Reinvent Capitalism - and Unleash a Wave of Innovation and Growth.”
Il concetto di shared value, traducibile in valore condiviso, non ha molto in comune con la responsabilità sociale di impresa, che impone un asset etico prima della ricerca del profitto e che gli autori giudicano negativamente. Secondo Porter e Kramer la RSI non migliora la qualità della vita ma ha l'effetto negativo di
coinvolgere il settore privato nelle carenze della gestione pubblica,
rendendo le imprese co-responsabili dei problemi.
Il valore condiviso aumenta la competitività aziendale e contemporaneamente migliora le condizioni economiche e sociali della comunità in cui opera l'azienda. In pratica non si mettono in discussione i criteri di base dell'economia capitalista come costo, valore e profitto ma li si applica nel campo sociale, dove i parametri di valutazione sono generalmente altri. Il valore condiviso, a differenza della RSI, non si basa su
prinicipi morali, anzi le imprese che lo applicano continueranno a
privilegiare i propri interessi, ad esempio con azioni di pressione
politica o cercando di pagare meno tasse possibile. "Non è importante
che una impresa sia buona o cattiva - spiega Kramer - ma piuttosto
stimolare le imprese ad privilegiare sul mercato i temi di rilevanza
sociale."
Ragionamento cinico e affatto idealista, ma che può indirizzare le aziende a cercare di guadagnare in settori "virtuosi". Il dibattito è aperto.
Nessun commento:
Posta un commento