
Il professor Carandini (71), ha appena pubblicato per Einaudi Archeologia Classica - vedere il tempo antico con gli occhi del 2000, un saggio in cui accusa i suoi colleghi di scavare troppo, e spesso senza valide motivazioni.
Terreni recintati, vestigia appena percettibili protette da tettoie di lamiera arrugginita. "L' Italia, da zero a quindici metri di profondità, presenta sempre vestigia romane o alto-medioevali. Cosa facciamo? Non viviamo più per le nostre civiltà sepolte?" dice Carandini.
Io sono completamente d'accordo. Anche perché i funzionari bloccano le riconversioni del territorio, cominciano a scavare e spesso si fermano poco dopo, lamentando carenza di fondi e altre emergenze. Ma tutto rimane bloccato per anni, a volte per sempre. Spazi urbani di grande pregio, recintati e inaccessibili, il cui valore culturale resta misterioso, non potranno mai più essere riqualificati.
Le città italiane si sono sempre sviluppate e ricostruite sopra le preesistenze. Non ha caso abbiamo degli strati archeologici. Dopo due millenni oggi il sistema è cambiato: noi scaviamo, inevitabilmente troviamo qualcosa, blocchiamo il cantiere e ripudiamo la trasformazione urbana in favore dell'espansione periferica.
Carandini se la prende con i "Talebani della conservazione" delle soprintendenze archeologiche ma anche con "associazioni benemerite e vecchiotte" che venerano ogni traccia di passato e che "a tutto della vita si oppongono, in sterile e costosa resistenza, e che hanno l' unico scopo di vincolare l' intero Paese, come se separare dalla vita implicasse anche conservare".
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