Il tag è uno degli utensili più controversi dei social network. Nato per condividere le foto con le persone più care, si è velocemente trasformato in uno strumento invasivo che permette ai nostri "amici" di pubblicare immagini sulle nostre pagine, semplicemente cliccando il nostro nome sulla foto. E la foto molto spesso è il cavallo di Troia per un testo, che dovrebbe essere solo una didascalia e invece diventa uno statement, una dichiarazione. A volote un comizio. Chi frequenta il mondo social della politica soffre l'invadenza di tag continui, particolarmente in tempi di campagna elettorale come in queste settimane.
Il tag è stalking, in qualche modo. Troviamo le nostre pagine (non mi piace chiamarle bacheche, termine desueto e arcaico, pessima traduzione) invase da contenuti spesso sgraditi, se non addirittura osteggiati. Il rimedio è tedioso: spuntare i tag uno ad uno, oppure mantenere il tag per pura cortesia ma ordinare di cancellare il link al post nella nostra pagina. Già invasi da telefonate e squilli di campanello sgraditi, non vorremmo vedere invaso il nostro spazio social, di cui ognuno di noi è editore e direttore responsabile. Tutto va comunque fatto con cautela, perché esistono anche persone che ti taggano senza motivo ma si offendono a morte se rimuovi il tag.
Sui social network accade di tutto, quasi sempre con esiti modestissimi in termini di comunicazione sociale. Ma se i "buongiorno mondo" o "buonanotte popolo di faccialibro" sono fastidiosi ma spariscono in fretta, il tag è permanente e pervasivo. Ad esempio da settimane le truppe social web del candidato di centrodestra alla presidenza della mia regione mi taggano di continuo nei loro post. Naturalmente non sono ricambiati, io ho una mia etica web e rispetto la netiquette. Con pazienza cancello i tag, a qualcuno mando messaggi privati chiedendo di smettere, nei casi estremi impedisco l'accesso alla mia pagina cancellando la "amicizia".
Una mia amica vera sostiene da tempo che bisognerebbe organizzare corsi di formazione per l'uso corretto dei social network. Mi convinco ogni giorno di più che ha ragione.
Il tag è stalking, in qualche modo. Troviamo le nostre pagine (non mi piace chiamarle bacheche, termine desueto e arcaico, pessima traduzione) invase da contenuti spesso sgraditi, se non addirittura osteggiati. Il rimedio è tedioso: spuntare i tag uno ad uno, oppure mantenere il tag per pura cortesia ma ordinare di cancellare il link al post nella nostra pagina. Già invasi da telefonate e squilli di campanello sgraditi, non vorremmo vedere invaso il nostro spazio social, di cui ognuno di noi è editore e direttore responsabile. Tutto va comunque fatto con cautela, perché esistono anche persone che ti taggano senza motivo ma si offendono a morte se rimuovi il tag.
Sui social network accade di tutto, quasi sempre con esiti modestissimi in termini di comunicazione sociale. Ma se i "buongiorno mondo" o "buonanotte popolo di faccialibro" sono fastidiosi ma spariscono in fretta, il tag è permanente e pervasivo. Ad esempio da settimane le truppe social web del candidato di centrodestra alla presidenza della mia regione mi taggano di continuo nei loro post. Naturalmente non sono ricambiati, io ho una mia etica web e rispetto la netiquette. Con pazienza cancello i tag, a qualcuno mando messaggi privati chiedendo di smettere, nei casi estremi impedisco l'accesso alla mia pagina cancellando la "amicizia".
Una mia amica vera sostiene da tempo che bisognerebbe organizzare corsi di formazione per l'uso corretto dei social network. Mi convinco ogni giorno di più che ha ragione.
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