
Jeremy Rifkin nei suoi discorsi ricorda spesso che sulla terra non ci sarebbe un'emergenza cibo se un terzo delle coltivazioni non fossero destinate a mangimi animali. Lo stesso vale per il pesce: secondo uno studio recente il 37% del pescato globale (31,5 milioni di tonnellate) finisce nei mangimi. Circa la metà è destinato al pesce d'allevamento il resto diviso tra suini e polli. Si tratta per lo più di pesci di scarsa qualità, sardine o piccole aringhe menhaden, ma di questi si nutrono i mammiferi e gli uccelli marini, oltre che naturalmente i pesci più grossi. Così polli e maiali - così come noi umani che li mangiamo - entrano in diretta competizione alimentare con capodogli, foche e cormorani.
Per ogni chilo di salmone di allevamento servono tre chili di pesce. Per non parlare del pesce destinato al cibo per cani e per gatti, un mercato in espansione esponenziale. In Australia i gatti mangiano 14 kg di pesce a testa l'anno, gli uomini solo 11.
Questa perversa catena non è sostenibile e rischia di provocare danni irreversibili all'ecosistema degli oceani. Sarebbe opportuno mangiare meno carne, ingrassare meno gli animali di allevamento e riconvertire buona parte della produzione agricola all'alimentazione umana. Ci guadagnerebbe anche la salute, con una sostanziale riduzione del rischio cardiaco.
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