Questo è il mio articolo di ieri pubblicato su l'Unità TV.
Per capire cosa si sta decidendo alla COP 21 di Parigi serve un minimo di storia, che inizia nel 1994 con l'istituzione della UNFCCC, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici creata per "evitare pericolose interferenze antropiche con il sistema del clima". Nel 1997 la COP 3 di Kyoto approvò un documento che imponeva ai paesi più avanzati di ridurre le proprie emissioni di gas serra di una media del 5% entro il 2012, prendendo come riferimento le emissioni del 1990. Nel Protocollo di Kyoto gli obiettivi erano differenti per le singole nazioni e non riguardavano i paesi in via di sviluppo. L'Italia ha ratificato il protocollo di Kyoto nel 2002.
Dieci anni dopo, alla COP 13 di Bali del 2007 fu adottato un piano di azione, la Bali Roadmap, che prevedeva la sottoscrizione di un nuovo accordo globale sul clima entro i successivi due anni. Questa volta l'accordo avrebbe dovuto interessare tutti i paesi del pianeta, non solo quelli più ricchi, e comprendere azioni di adattamento e mitigazione ai cambiamenti climatici, finanziamento per politiche energetiche innovative e nuove tecnologie.
La scadenza per il nuovo accordo era fissata per la COP 15, in programma nel dicembre 2009 a Copenhagen. La circostanza sembrava talmente importante che tutti i leader mondiali parteciparono al summit, meno Berlusconi che era convalescente per le ferite riportate in un comizio a Milano. Malgrado l'altissimo livello delle presenze politiche le aspettative furono deluse: dopo tredici ore di discussione la plenaria finale del meeting si concluse con una dichiarazione nella quale le nazioni "prendevano atto" del documento chiamato Accordo di Copenhagen, senza obblighi. Resta la frase che pronunciò allora il presidente venezuelano Chavez: "Se il clima fosse stato una banca, l'Occidente lo avrebbe salvato da un pezzo".
Dopo la COP 15 quindi era tutto da rifare, anche se successivamente oltre 140 paesi dichiararono il loro sostegno all'Accordo di Copenhagen. Nel frattempo si era scatenata la crisi economica globale, che ridusse drasticamente le risorse da destinare a investimenti in innovazione, ricerca, sostegno pubblico alle energie rinnovabili e nuove tecnologie. Tempi oscuri per la lotta ai cambiamenti climatici.
La COP 17 di Durban nel 2011 istituì una nuova roadmap e dei gruppi di lavoro ad hoc, con l'obiettivo di predisporre un nuovo accordo. La scadenza finale fu fissata per la COP 21, che la Francia si offrì di ospitare nel 2015 a Parigi. Tradizionalmente le COP si svolgono nella prima metà di dicembre.
Negli ultimi anni i negoziati sono proseguiti a fasi alterne, con accelerazioni e rallentamenti. La COP 20 di Lima 2014 decise l'introduzione delle Intended Nationally Determined Contributions (INDC): ogni paese deve presentare il proprio piano di riduzione delle emissioni di gas serra, con tempistica e quantità stabilite. Non si tratta di documenti vincolanti, ma essendo approvati formalmente dai singoli governi hanno un valore politico rilevante. La scelta di individuare strategie nazionali permette di incassare impegni evitando la regola ONU che prevede l'unanimità. L'Accordo di Copenhagen del 2009 non fu approvato per l'opposizione di soli sette paesi: Venezuela, Nicaragua, Costarica, Cuba, Bolivia, Sudan e Tuvalu.
Ad oggi 183 dei 196 paesi che aderiscono alla Convenzione ONU sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) hanno presentato un piano nazionale per la riduzione delle emissioni. Tra questi anche l'Italia, che lo ha fatto congiuntamente alle altre nazioni dell'Unione Europea.
La redazione del nuovo accordo è ancora in progress. Le tre sessioni di negoziati svoltesi nel 2015 non hanno prodotto un testo completamente condiviso. Quello che manca dovrà essere deciso in queste due settimane a Parigi.
Per capire cosa si sta decidendo alla COP 21 di Parigi serve un minimo di storia, che inizia nel 1994 con l'istituzione della UNFCCC, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici creata per "evitare pericolose interferenze antropiche con il sistema del clima". Nel 1997 la COP 3 di Kyoto approvò un documento che imponeva ai paesi più avanzati di ridurre le proprie emissioni di gas serra di una media del 5% entro il 2012, prendendo come riferimento le emissioni del 1990. Nel Protocollo di Kyoto gli obiettivi erano differenti per le singole nazioni e non riguardavano i paesi in via di sviluppo. L'Italia ha ratificato il protocollo di Kyoto nel 2002.
Dieci anni dopo, alla COP 13 di Bali del 2007 fu adottato un piano di azione, la Bali Roadmap, che prevedeva la sottoscrizione di un nuovo accordo globale sul clima entro i successivi due anni. Questa volta l'accordo avrebbe dovuto interessare tutti i paesi del pianeta, non solo quelli più ricchi, e comprendere azioni di adattamento e mitigazione ai cambiamenti climatici, finanziamento per politiche energetiche innovative e nuove tecnologie.
La scadenza per il nuovo accordo era fissata per la COP 15, in programma nel dicembre 2009 a Copenhagen. La circostanza sembrava talmente importante che tutti i leader mondiali parteciparono al summit, meno Berlusconi che era convalescente per le ferite riportate in un comizio a Milano. Malgrado l'altissimo livello delle presenze politiche le aspettative furono deluse: dopo tredici ore di discussione la plenaria finale del meeting si concluse con una dichiarazione nella quale le nazioni "prendevano atto" del documento chiamato Accordo di Copenhagen, senza obblighi. Resta la frase che pronunciò allora il presidente venezuelano Chavez: "Se il clima fosse stato una banca, l'Occidente lo avrebbe salvato da un pezzo".
Dopo la COP 15 quindi era tutto da rifare, anche se successivamente oltre 140 paesi dichiararono il loro sostegno all'Accordo di Copenhagen. Nel frattempo si era scatenata la crisi economica globale, che ridusse drasticamente le risorse da destinare a investimenti in innovazione, ricerca, sostegno pubblico alle energie rinnovabili e nuove tecnologie. Tempi oscuri per la lotta ai cambiamenti climatici.
La COP 17 di Durban nel 2011 istituì una nuova roadmap e dei gruppi di lavoro ad hoc, con l'obiettivo di predisporre un nuovo accordo. La scadenza finale fu fissata per la COP 21, che la Francia si offrì di ospitare nel 2015 a Parigi. Tradizionalmente le COP si svolgono nella prima metà di dicembre.
Negli ultimi anni i negoziati sono proseguiti a fasi alterne, con accelerazioni e rallentamenti. La COP 20 di Lima 2014 decise l'introduzione delle Intended Nationally Determined Contributions (INDC): ogni paese deve presentare il proprio piano di riduzione delle emissioni di gas serra, con tempistica e quantità stabilite. Non si tratta di documenti vincolanti, ma essendo approvati formalmente dai singoli governi hanno un valore politico rilevante. La scelta di individuare strategie nazionali permette di incassare impegni evitando la regola ONU che prevede l'unanimità. L'Accordo di Copenhagen del 2009 non fu approvato per l'opposizione di soli sette paesi: Venezuela, Nicaragua, Costarica, Cuba, Bolivia, Sudan e Tuvalu.
Ad oggi 183 dei 196 paesi che aderiscono alla Convenzione ONU sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) hanno presentato un piano nazionale per la riduzione delle emissioni. Tra questi anche l'Italia, che lo ha fatto congiuntamente alle altre nazioni dell'Unione Europea.
La redazione del nuovo accordo è ancora in progress. Le tre sessioni di negoziati svoltesi nel 2015 non hanno prodotto un testo completamente condiviso. Quello che manca dovrà essere deciso in queste due settimane a Parigi.
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