Vittorio Gregotti è la prima vittima illustre italiana del Coronavirus. Architetto e cultore di storia urbana, è stato definito uno dei maestri del Novecento. Io invece penso che chi scrive bene di architettura non dovrebbe progettare, come i critici cinematografici non possono fare i registi.
Gregotti scriveva molto, seguendo teorie consolidate nel secolo scorso sul primato della progettazione dirigista e della committenza pubblica. Fu chiamato nel 1982 a dirigere la prestigiosa rivista Casabella per allontanarla dalle infatuazioni per l'architettura radicale e il nascente postmoderno graditi al precedente direttore Tomás Maldonado, decisamente meno ortodosso. Alessandro Mendini lo definì senza mezzi termini un direttore dannoso.
Gregotti detestava il postmoderno e l'architettura/oggetto. Era un uomo di pianificazione e di ordine. I suoi progetti seguono quasi sempre le categorie classiche dell'architettura, ma i risultati non sono stati sempre entusiasmanti, come lo stadio Marassi a Genova (sotto) e naturalmente il quartiere Zen a Palermo, diventato uno dei simboli della incapacità dell'architettura di risolvere il problema dei grandi complessi di edilizia residenziale pubblica.
La sua avversione per il progetto/oggetto è continuata fino alla morte. La definiva "l'agonia della modernità", rifiutando la spettacolarizzazione degli archistar. La sua visione urbana e architettonica restava centrata sull'ordine e il rigore.
Rispettato e stimato, Gregotti ha continuato a scrivere e progettare anche se minato da una grave artrite. Tra gli ultimi progetti la nuova città cinese di Pujiang, un complesso residenziale per centomila persone a venti Km da Shangai, costruito "all'italiana". Una esperienza da dimenticare, stucchevole e anacronistica.
Vittorio Gregotti ha segnato comunque la storia urbana dell'Italia nella seconda metà del Novecento. Molti lo rimpiangono. Tra questi Massimo Cacciari, che oggi gli ha dedicato un commoso coccodrillo su La Repubblica, che copio qui sotto.
Gregotti scriveva molto, seguendo teorie consolidate nel secolo scorso sul primato della progettazione dirigista e della committenza pubblica. Fu chiamato nel 1982 a dirigere la prestigiosa rivista Casabella per allontanarla dalle infatuazioni per l'architettura radicale e il nascente postmoderno graditi al precedente direttore Tomás Maldonado, decisamente meno ortodosso. Alessandro Mendini lo definì senza mezzi termini un direttore dannoso.
Gregotti detestava il postmoderno e l'architettura/oggetto. Era un uomo di pianificazione e di ordine. I suoi progetti seguono quasi sempre le categorie classiche dell'architettura, ma i risultati non sono stati sempre entusiasmanti, come lo stadio Marassi a Genova (sotto) e naturalmente il quartiere Zen a Palermo, diventato uno dei simboli della incapacità dell'architettura di risolvere il problema dei grandi complessi di edilizia residenziale pubblica.
La sua avversione per il progetto/oggetto è continuata fino alla morte. La definiva "l'agonia della modernità", rifiutando la spettacolarizzazione degli archistar. La sua visione urbana e architettonica restava centrata sull'ordine e il rigore.
Rispettato e stimato, Gregotti ha continuato a scrivere e progettare anche se minato da una grave artrite. Tra gli ultimi progetti la nuova città cinese di Pujiang, un complesso residenziale per centomila persone a venti Km da Shangai, costruito "all'italiana". Una esperienza da dimenticare, stucchevole e anacronistica.
Vittorio Gregotti ha segnato comunque la storia urbana dell'Italia nella seconda metà del Novecento. Molti lo rimpiangono. Tra questi Massimo Cacciari, che oggi gli ha dedicato un commoso coccodrillo su La Repubblica, che copio qui sotto.
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