Più ci penso più l'intervento sulla struttura partito del PD pubblicato da Romano Prodi su il Messaggero di domenica scorsa mi sembra non solo assolutamente intempestivo ma sbagliato.
La proposta di Prodi si riassume in un partito "federale", in cui il segretario non viene eletto dalle primarie né dai congressi, ma dai venti segretari regionali. A parte che, come hanno scritto in tanti a cominciare da Pippo Civati, poteva dirlo prima e che, dopo una stagione congressuale lunga come sette quaresime, nessuno ha voglia di rimettere in piedi un processo di selezione della classe dirigente. Ma nella sostanza l'ipotesi di delegare la scelta del leader nazionale del PD ai segretari regionali non sembra particolarmente sexy. "Non serve un imperatore eletto dai principi" ha commentato Sandro Gozi.
Senza contare che il cosiddetto federalismo non passa necessariamente attraverso l'annullamento dei numeri dei voti e degli iscritti, con tutto il rispetto per i segretari di Molise e Valle d'Aosta. E tenendo presente che in alcune realtà i processi di selezione degli stessi segretari regionali lasciano ombre e perplessità. Lo riconosce lo stesso Prodi quando scrive che "naturalmente tutto questo può funzionare solo se si impongono durissime regole di pulizia e di trasparenza nelle procedure di tesseramento".
Con Prodi si schiera Chiamparino che, dopo un intervento con accenni da sfidante di Bersani sabato scorso al parterre di Confindustria e commenti positivi diffusi ieri, scrive oggi a Il Messaggero testimoniando il suo sostegno all'idea del professore. Per il resto, a parte timide aperture di Errani e il vate Cacciari che ritorna con la storia del partito del Nord, tutto il PD sembra ritrovare una inedità unita nel sostegno al segretario, o perlomeno a come è stato eletto.
Resta da notare come il tema abbia dato grande visibilità nazionale a il Messaggero, giornale a cui Prodi contribuisce spesso ma che normalmente non viene letto né citato da alcuno al di sopra della Linea Gotica.
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