martedì 3 luglio 2018

L'editoriale di oggi di Claudio Cerasa



L’Italia cresce, ed è sempre più arrabbiata. La disoccupazione diminuisce, e il risentimento aumenta. L’occupazione migliora, e l’indignazione si moltiplica. Il numero di sbarchi crolla, e la paura degli sbarchi si dilata. I delitti calano, gli omicidi calano, i furti calano, i femminicidi calano, le rapine calano, gli omicidi calano, e l’insicurezza aumenta. La stragrande maggioranza degli italiani si dichiara molto soddisfatta della vita che conduce e la stragrande maggioranza degli italiani dichiara di coltivare un forte sentimento di rancore. La percentuale di stranieri in Italia è di otto persone ogni cento e il settanta per cento degli italiani è convinto che siano almeno il doppio. Nell’Italia delle fake news, delle bufale, delle cialtronate, del virale che conta più del reale, dei bambini morti su una spiaggia che vengono descritti come se fossero bambolotti, più passano i giorni, più si accavallano i dati, più si sommano le statistiche e più risulta sempre più evidente quello che in pochi vogliono vedere: la post verità di solito nasce con la distruzione del principio di realtà e quando un paese non riesce a mettere il principio di realtà su un piedistallo più alto rispetto a quello della demagogia quel paese è destinato a essere governato da un agenda che risulta essere un mix di rancore e di fuffa.
L’Italia di oggi, se vogliamo, è tutta nei dati del Censis della scorsa settimana – i reati sono in calo, meno 10,2 per cento nell’ultimo anno, ma nonostante questo si moltiplicano paure e insicurezza. E’ tutta nei dati del Viminale di ieri – il numero dei migranti sbarcati tra il primo gennaio 2018 e il 2 luglio 2018 è del 76,62 per cento inferiore rispetto al 2016 e dell’80,51 per cento inferiore rispetto al 2017. E’ tutta nei dati dell’Istat sempre sull’occupazione – a maggio gli occupati hanno raggiunto il massimo storico di 23 milioni 382 mila unità, il tasso di disoccupazione è sceso al 10,7 per cento ai minimi dal 2012. E’ tutta nella grande contraddizione in cui si trova oggi il paese governato da Salvini e Di Maio: due forze politiche che hanno tarato la propria offerta elettorale più sul percepito che sul reale (“Always predict the worst and you’ll be hailed as a prophet”, cantava il musicista americano Tom Lehrer) e che ora di fronte a un’Italia che va meglio di quanto è stato raccontato sanno che il rischio che corrono è non riuscire a fare meglio dei predecessori.
Quando un paese si ritrova a essere governato dai professionisti della percezione, e dagli algoritmi del rancore, quel paese rischia di avere politici interessati a occuparsi più della forma che della sostanza, più della fuffa che della realtà, più dei problemi inventati che dei problemi reali. Ma quando un paese si ritrova a essere governato più dal virale che dal reale – e quando cioè un paese viene messo nelle condizioni di osservare il mondo non per quello che è ma per quello che sembra – il problema non riguarda più solo la politica. Riguarda prima di tutto uno spazio che dovrebbe essere cruciale per ogni democrazia: l’esistenza o meno di una opinione pubblica. La ragione per cui l’Italia tende più di altri paesi in Europa a considerare come potenziali verità diverse potenziali bugie – e tende a considerare come potenziali falsità diverse potenziali verità – è il frutto di un meccanismo perverso che si è andato a innescare nel nostro tessuto democratico e che riguarda un fenomeno persino più grave rispetto a quello delle fake news: la proliferazione delle bad news. La storia la conoscete. Una notizia può essere considerata tale solo a condizione che la notizia sia negativa.
Una buona notizia è automaticamente una non notizia e a forza di considerare notizie degne di essere trattate solo notizie che descrivono un problema siamo arrivati ad avere un’opinione pubblica che ha certificato la sua scomparsa nella misura in cui è diventata volontariamente o involontariamente portavoce di unico sentimento: quello del rancore. Gregg Easterbrook, autore di un formidabile saggio sull’ottimismo pubblicato pochi mesi fa in America con la casa editrice Public Affairs (“It’s Better Than It Looks: Reasons for Optimism in an Age of Fear”), sostiene che una delle ragioni per cui le società moderne tendono a dare poco peso alle buone notizie sia legata al paradosso del progresso: “As life gets better, people feel worse”. Più le cose vanno bene e più le persone tenderanno ad accorgersi della propria felicità solo quando staranno per perderla. Nell’Italia di oggi – dove il rischio descritto da Easterbrook lo si corre più che in altri paesi europei – la fine dell’opinione pubblica può essere messa a fuoco utilizzando diverse lenti di ingrandimento. La più importante, e la più grave, è però quella che impedisce di raccontare il mondo per quello che è per paura di essere considerati veicoli di fake news. Se il cretino collettivo ha deciso che il mondo è prossimo allo sfascio affermare il contrario non significa opporre alla demagogia il principio di realtà, ma significa negare la realtà virale, esponendosi all’assalto delle cavallette digitali. La rinascita dell’opinione pubblica non passa solo dalla capacità di reagire ai professionisti dello sfascio. Passa da qualcosa di più rivoluzionario: cominciare a saper distinguere un fatto per quello che è, e non per quello che sembra, e stanare senza pietà la demagogia vuota di chi non ha altro strumento per governare un paese se non quello della paura. E’ arrivato il momento di svegliarsi.

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